Commedia il cui protagonista Agostino Toti, professore settantenne, affronta coraggiosamente il conflitto tra il suo autentico senso d’umanità e le regole di una società mediocre e ipocrita che egli trasgredisce accettando di risultare a tutti stravagante. Egli decide di sposare la giovane Lillina solo allo scopo di lasciarle la pensione dello Stato e il suo patrimonio. Lillina è incinta di Giacomino, suo fidanzato, ed è stata cacciata di casa perché sorpresa in intimo colloquio con lui. Il matrimonio col vecchio professore è per lei una vera salvezza, sarà un matrimonio convenzionale, vivrà con lui come una figlia e potrà continuare a incontrarsi con Giacomino, ma contrastato da Rosaria, sorella del professore.
NOTE DI REGIA
“Pensaci, Giacomino!” rappresenta per me uno dei lavori in cui Pirandello riesce, restando immune da facili moralismi, a dar corpo con più intensità a una critica profonda e assolutamente lontana da tentazioni qualunquistiche di quelle convenzioni sociali, di quell’ipocrisia, di quelle maschere con le quali la gente comune traveste la propria assenza di principi etici.
In fondo la figura di Toti, il suo andare contro le convenzioni in modo così puro, mantiene anche a livello contemporaneo il carattere di una ribellione “effettiva”, totalizzante, radicale proprio perché tocca le corde più intime dell’essere umano; del suo essere in primo luogo “animale sociale”, costretto nella maggior parte dei casi a vivere un’esistenza anestetizzata, spogliata da ogni sentimento, imprigionata in uno spazio claustrofobico di gesti ripetuti, dovuti, ma mai sentiti come veri. Così anche la scuola di Toti è diventata per me un labirinto Kafkiano, un ventre monumentale e oscuro dove le apparenze e il “decoro” ammorbano l’aria con la loro gravità arida e malata, dove chi si sottrae, chi manifesta un’indifferenza interiore, è emarginato, escluso perché diverso, inspiegabilmente estraneo a un corpus sociale fagocitante e crudele e quindi da rimuovere, da dimenticare.
Ma Toti non appare come un vinto, né una figura triste o malinconica, di vecchio ingrigito dai propri pensieri. È anzi l’unico che esce vincitore in una guerra dalla quale tutti escono sconfitti; il più intelligente, in fondo, quello che sente di poter scegliere, di essere padrone della propria vita, delle proprie certezze, dei propri errori, pronto a pagare, a sentire tutto sulla pelle con coraggio. Non è il candore senile a impegnare il personaggio, ma l’acutezza mentale, il profondo rigore etico, la coerenza tagliente, quello che infastidisce; perché fa pensare, perché mette di fronte ognuno di noi alla nostra ridicola apparenza di fantocci impegnati in rituali spogli di ogni significato, decisi da qualcun’altro e accettati per comodità.
Guglielmo Ferro